mercoledì 27 luglio 2011

I rischi del front-office

Ci sono persone che la mattina si alzano con l'intento di andare a lavorare. Ce ne sono altre che la mattina si alzano con l'intento di rendere la vita difficile al prossimo.

T'insegnano che devi essere sempre gentile, disponibile e sorridente, ma che succede se mentre parli con il tono più tranquillo e cortese del mondo uno se ne esce dicendoti tutto borioso: "Non diciamo fesserie!!"?

"Non diciamo fesserie!"
"Come prego? Le dicevo che abbiamo avuto un problema alla rete, ma ora dovrebbe essere risolto" 
"Ma io non riesco ad accedere!! Pago novecento euro di tasse e pretendo di collegarmi a Internet da qua! Deve farmi controllare l'e-mail, così vede!!" (per favore, magari)
"Questa è la sua password, con questa dovrebbe potersi collegare"
"Con questa non posso accedere!! Io penso di potermi far risolvere questo problema da lei!" (sbattendo la mia povera targhetta sulla scrivania)
"Veramente noi tutor non ci occupiamo dei problemi di rete, dovrebbe chiedere all'ufficio informatico"
"Mi dia il numero!!" (ha dimenticato ancora le paroline magiche, per favore)
"Senta io non sono un centralino, non ho il numero"
"La sua collega lo aveva!! Ha chiamato qua, ha chiamato là e non è riuscita a risolvere!!"
"Le ripeto che non ci occupiamo noi dei problemi di rete, non deve lamentarsi con noi"
"Qui fate tutti scaricabarile!!"
"Mi scusi, se lei deve comprare la frutta va dal macellaio e pretende che gliela dia?"
"Adesso andiamo, le faccio vedere che con questa password non accedo!!" (magari per favore e con calma, eh?)

Per fortuna a quel punto è intervenuto il responsabile (grazie al cielo, stavo per esplodere seriamente) che gli ha detto che il mio compito non è risolvere i problemi di account altrui, quindi di non prendersela con me. A quel punto il tizio è andato da solo a collegarsi con la password che gli avevo detto.

E le cose sono due:
  • - o lui è il nuovo messia informatico che compie miracoli telematici con la sola imposizione delle mani sulla tastiera;
  • - o più semplicemente, mi ha sbraitato contro per un quarto d'ora dandomi colpe per cose che non sapevo nemmeno di aver fatto (a momenti era colpa mia anche il buco dell'ozono) perché non riusciva a collegarsi per un errore (suo) di digitazione della password.

Credete che sia venuto a chiedermi scusa? A informarmi che la connessione finalmente funzionava? Risposta esatta: assolutamente no.

MA BRUTTO COGLIONE, SE PAGHI NOVECENTO EURO DI TASSE SIGNIFICA CHE PUOI BENISSIMO PERMETTERTI UN PIDOCCHIOSO PORTATILE E UNA PULCIOSA CHIAVETTA SENZA ROMPERE LE BALLE A ME CON LE TUE PRETESE, SE NON SEI CAPACE DI DIGITARE CORRETTAMENTE UNA PASSWORD RESTATENE A CASA TUA!!!

Questo era quello che avrei voluto dirgli , ma si sa, quando sei a un front-office da impiegata devi essere il più cortese possibile.

PS: Se per caso passi da qui e ti riconosci in questo post, sappi che ce l'ho proprio con te, cretino arrogante dei miei stivali.

martedì 26 luglio 2011

Bulimia bloggereccia

E poi ci sono gli attacchi di bulimia bloggereccia, che mi portano a scrivere anche un post dietro l'altro, perché un sistema di pensieri si è chiuso e se n'è aperto subito un altro. Incontinenza verbale, la chiama qualcuno. Ne soffro anch'io, e stasera sono in una fase acuta. Merito delle serate da sola, di facebook deserto (odio facebook ma non posso farne a meno, un po' come tutti, immagino) e di una canzone dei Placebo scelta a caso (improvvisamente mi è venuta voglia di ascoltarli), in una versione che non conoscevo ma che non mi piace molto. La canzone è Song to say goodbye, per la cronaca. Detesto essere criptica, rileggermi a distanza di mesi o anni, e non capire più cosa volevo scrivere.

Credo che quest'inclinazione alla scrittura di stasera sia dovuta al fatto che qualcuno si è preso una serata libera ed è andato a giocare a pallone con gli amici. Ma ha ragione. Dobbiamo recuperare un po' di spazi personali, specialmente ora che stiamo per sposarci (mi sposo davvero, ommioddiocheccavolomièsaltatoinmente). Anche se lui in estate è così... così... vivo. Così pieno di contorni, così concreto, così perfetto, così incredibilmente bello ai miei occhi, che staccarsi da lui diventa sempre più difficile. La sua pelle baciata dal sole ha un sapore così buono, che pensarlo lì senza di me paradossalmente me lo fa piacere ancora di più. Fantasticare su di lui come se fosse uno sconosciuto mi fa capire che possiamo spingerci ancora più in là, che non lo conosco così bene come credo, che lui è un mondo tutto da scoprire. Quel rosso estate che colora le sue guance mi fa restare qui inchiodata al pc a vomitare i pensieri che mi fa venire in mente (non tutti, altrimenti di rosso su questo post ci sarebbe anche il proverbiale bollino) desiderando ardentemente una sua chiamata, desiderando di sentire la sua voce, i suoi commenti al messaggio scemo che gli ho mandato qualche ora fa.

E mentre le note dei Placebo continuano a diffondersi nell'aria (stavolta con Twenty years), mi sa che vinco l'orgoglio e lo chiamo io, che anche se gioco a fare la forte sono sempre la solita donnina innamorata che non può fare a meno di sentirlo.

C'è speranza nell'incostanza?

Ah-ah, ho il titolo in rima!

Comunque.

Uno dei miei difetti peggiori è l'incostanza. Inizio qualcosa piena di entusiasmo, aspettative eccetera e poi la mollo a metà. Troppo impegnata a vivere la vita per fermarmi a raccontarla, dicevo una volta. Che da una parte è anche vero, visto che le ferie del mio ragazzo sono appena terminate e in questo periodo non ho scritto neanche una volta (avrei potuto? Non lo so). Ma gira e rigira sono sempre la solita, quella che sul blog ci scrive una volta ogni morte di papa.

Da adolescente non ero così, lo giuro. Avevo un diario vero, fatto di carta e inchiostro e non di bytes e html, un diario che aveva un nome e in cui ogni pagina iniziava con "Cara X" (X era il nome del mio diario, per indicare l'icognito... lo so lo so, ero strana forte a 15 anni), come se mi rivolgessi a qualcuno, a un'amica. Un diario che a volte rileggo, ma sul quale non scrivo da (oddio mi vergogno anche a scriverlo) qualcosa come quattro anni.

E poi sono un'asociale. Ho sempre scritto diari più per me stessa che per gli altri, per tener conto di sensazioni che altrimenti mi sfuggirebbero. O almeno, questa è l'intenzione di ogni volta. E invece toh, stavo per scrivere che non riesco mai a farlo, ma ho appena riletto alcuni post di un vecchio blog che mi hanno stupita. Una volta avevo un mondo dentro, avevo sensazioni e pensieri che dovevano necessariamente uscire, che premevano per venire allo scoperto. Adesso? Adesso non so più cos'ho, non esprimo, non analizzo, non metto nero su bianco. I miei post a volte mi sembrano quasi vuoti, privi di uno slancio autentico. Una volta ascoltavo anche più musica, il silenzio davanti al pc mi era intollerabile. Adesso invece è quasi la norma. Non riesco più a pensare a una canzone random. Ci metto un po' a scegliere la musica. Leggo meno libri, meno fumetti. Gioco meno con la playstation.

Non so com'è che sono finita a parlare di questo, non ne avevo intenzione, ma è in linea con il resto del post. La mia incostanza nel fare le cose. In ogni caso, nella testa ha iniziato a risuonarmi una canzone. Non so perché proprio questa, è una vecchia canzone alla quale non pensavo più da tempo, di quelle che quasi scordi che esistano, anche se un tempo ti sono piaciute tantissimo. E sono quasi soddisfatta, perché le parole stasera mi escono dalle dita senza controllo, vanno in una direzione tutta loro, si sono animate di vita propria come succedeva una volta.

In realtà è solo che adesso, adesso che avrei tanto di cui parlare, non mi escono le parole: ah-ah, questo è davvero in linea non solo con il post, ma addirittura con il titolo del blog. Le mie contraddizioni, la mia dipendenza dalle contraddizioni. Perché voglio continuare ad essere me stessa nel bene e nel male. Voglio che quella che discute di mutui e piani di ammortamento alla francese sia la stessa che ascoltava musica incazzata a tutto volume lanciando pensieri nel cyberspazio, come se qualcuno fosse davvero interessato a leggerli.

Ho letto blog di perfetti sconosciuti che mi hanno emozionata, commossa, fatta incazzare o sognare. E chissà se le mie parole hanno mai fatto altrettanto. Voglio credere di sì, sul vecchio blog ricevevo anche commenti tipo "adoro il tuo blog!", ma da brava stronza asociale non ho mai risposto. Ho sempre intrattenuto rapporti superficiali con gli altri blogger, e la cosa è... boh? Come qualificarla? Non lo so. So solo che sono così, estroversa al limite del fastidioso o introversa ai limiti dell'asociale. Non ho vie di mezzo. Bianco o nero. Contraddizioni, incoerenza e incostanza sono sempre state mie fedeli compagne.

Ma nonostante ciò non riesco a essere diversa, e neanche mi interessa. Chissà perché poi la gente fa tutta questa autoanalisi. O meglio, chissà perché la faccio io, da sempre. Chissà cos'è questo bisogno di essere conosciuta, capita fino in fondo. Forse perché il mio futuro marito è così saldamente ancorato alla realtà, mentre io invece sono così saldamente ancorata alle nuvole. Scendo a terra quando serve, ma per il resto del tempo è quassù che vorrei essere. Quassù, con le mie seghe mentali, a chiedermi se secondo Kant esisto se i venditori ambulanti sulla spiaggia non mi cagano nemmeno di striscio. A chiedermi che ci faccio nei ventotto anni, quando me ne sento al massimo sedici (venti, nei momenti migliori). A chiedermi se riuscirò a vivere da trentenne, da quarantenne, da madre, con tutto questo ciarpame pseudo inutile nella testa, con tutti questi pensieri vagamente deliranti ben piantati nel cervello in attesa di essere scritti.

Forse è proprio questo il senso del blog. O della mia intera esistenza, chi lo sa. Ai posteri l'ardua sentenza (mi faccio schifo da sola per la citazione di Manzoni, è banale, lo so, lo so).